Flowing dreamlike memories di Fabiola Naldi
Viviamo tutti, nessun escluso, in una realtà composta da molteplici livelli di comunicazione e comprensione: un insieme di spazi intrecciati fra loro sempre più leggeri e impercettibili che, allo stesso tempo, modificano ogni minima percezione esteriore.
Ciò che viviamo, ciò di cui facciamo esperienza diretta o indiretta, ciò che ci viene mostrato tramite i diversi piani culturali, più comunemente noto come immaginario collettivo, ci inducono sempre più a straniarci, ad allontanarci dalla dimensione pubblica, tentando un ripiegamento sia fisico sia emotivo in un privato nascosto.
Quasi a volere ritrovare noi stessi, spesso la fotografia corre in nostro aiuto come supporto e testimone di un veloce scorrere dell’esperienza, del vissuto e del rapporto conseguente con il mondo che ci circonda.
Le “ambientazioni” fotografiche di Cecilia Luci diventano perciò non solo attestati di veridicità fotografica (secondo quanto ci dice il sempre noto Roland Barthes attraverso lo statuto classico della fotografia), ma anche soluzioni possibilistiche di una dimensione parallela altrettanto reale quanto la sua successiva trasposizione visiva.
Quanto avviene da oltre un secolo nella sfera dell’illusione fotografica è una sinergia di opposti che interagiscono, una collaborazione estetica fra due realtà.
Se consideriamo appunto l’immagine fotografica come una traccia del reale, qualcosa che effettivamente è stato, possiamo allora affermare che il prodotto a cui rivolgiamo l’attenzione parte comunque da un’esperienza tangibile, nonostante quella stessa suggestione lasci trapelare il presupposto dell’illusione.
L’immagine fotografica oscilla, così, tra due posizioni stabili e definite, un polo reale e un polo irreale, nascondendo di volta in volta la propria identità e conducendo a possibili rimandi di un passato nascosto dal fluire del tempo così come anche dallo strato cosciente dell’esistenza.
Le sospensioni, i galleggiamenti, le trasposizioni di un intimo che si rivela e non si svela portano le fotografie di Cecilia Luci a presentarsi come la parafrasi di un’altra dimensione: lo statuto di un privato, di un personale che appare per l’artista come l’occasione di sondare la “sostenibile leggerezza dell’essere”, ma anche la possibilità di condurre l’esperienza dello spettatore nei meandri del proprio intimo.
Partendo da quello stesso privato di Cecilia Luci, dai suoi studi esoterici antroposofici con Rudolf Steiner, dai seminari di tarocchi e psicogenealogia di Alejandro Jodoroski e dall’incontro fortunato con le costellazioni familiari sistemiche di Bert Hellinger si giunge ad un approccio sciamanico ed al contempo psicologico del vissuto inconscio e delle ramificazioni familiari che si riversano in quegli scatti fotografici all’apparenza così misteriosi ed oscuri. Sono questi i pretesti da cui partire per immergersi nel suo lavoro; non si può non tenere in considerazione proprio il suo personale vissuto, quasi un percorso visivo a ritroso non solo nella memoria tangibile, ma anche in quella sfera dell’onirico lasciato spesso a sedimentare desideri, inquietudini e rivisitazioni del proprio essere in divenire.
Le singole esperienze dell’autrice ritrovano una metamorfosi visiva proprio nella scelta della trasposizione fotografica: buona parte della sua prassi artistica verte ad un superamento, una sorta di “fuga in avanti” di un trascorso mascherato dal vissuto e dal tempo trascorso. Non si può negare l’evidenza del rapporto conscio-subconscio-inconscio rispecchiato poi nelle trascrizioni fotografiche che si presta ad essere letteralmente il tramite tra il viaggio a ritroso nel proprio personale e la contrapposizione visiva elaborata tramite gli espedienti dell’acqua inteso come liquido vibrante, vitale e in continua trasformazione.
Proprio la costante elaborazione di tratti del proprio vissuto, intimo e personale, porta l’elaborazione fotografica a modificare il sistema interno al ricordo stesso, quasi che lo scatto “meccanico” della fotografia possa essere inteso come un riposizionatore di fatti, luoghi, persone, emozioni.
In questo l’acqua, intesa come flusso energetico e primordiale assume un ruolo fondamentale nelle fotografie di Cecilia Luci: l’ambivalenza delle varie parti tradotte nello scatto fotografico determinano un cambiamento in divenire di un immaginario pulsante, ondeggiante.
Allo stesso modo, i “luoghi” ottenuti tramite il rapporto sensuale tra oggetti, liquido e fotografia conducono la memoria dello spettatore e, in questo caso, del lettore al famoso neologismo nonluogo teorizzato dall’antropologo francese Marc Augé nel 1993.
Il termine definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi.
I nonluoghi sono, in contrapposizione ai territori antropologici, tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari o relazionali. Sono ampi ambienti sociali in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione né con le altre presenze né con gli stessi contenitori che scandiscono il nostro vivere quotidiano.
All’apparenza niente di più lontanto se pensiamo superficialmente all’operato di Cecilia Luci: in realtà se volessimo realmente riflettere sulla distinzione luogo/nonluogo dovremmo indubbiamente descrivere quel preciso ambito mentale che svolge la propria definizione nell’opposizione del luogo con lo spazio. Lo spazio è una zona d’azione praticata e vissuta in maniera opposta al luogo inteso come manifestazione di un preciso ambito ideale.
Non voglio andare molto oltre: bastano queste poche riflessioni per trovarci, tutti insieme, dentro i luoghi in cui Cecilia Luci inscena le proprie visioni fotografiche. Ci troviamo, comunque, dinanzi a un’evidente intenzione di inglobare, incastonare o sottolineare un’area di azione in cui la stasi trasporta la memesi e il silenzio della sospensione che spesso ritroviamo nella processualità di Cecilia Luci.
Si tratta di fissare, così come ci insegna da sempre il mezzo fotografico, un inserto tanto privato quanto riconoscibile. Il risultato è lo spostamento sensibile dell’atmosfera immaginaria trattenuta dallo stesso scatto fotografico. Immediatamente l’alter-luogo inscenato da Cecilia Luci si tramuta in un esempio esistente di “ambiente” ex novo in cui si concretizza il sogno del “memento”.
In altre parole l’acqua utilizzata come atto sospensorio dell’agire presente può divenire una sorta di fermo immagine in cui l’intenzione dell’artista prevede lo spostamento di senso e di tempo. E così il risultato è un’ambientazione suggestiva in grado di definire il pretesto perfetto per un nuovo stato di contemplazione: i suoi “centri” fotografici diventano una nuova dimensione fisica intesa anche come definizione di un ipotetico e plausibile percorso emotivo.
Siamo di fronte a una costante compresenza di particolari che sospendono la nuova costruzione fotografica in una deriva immaginifica in cambiamento. In questo spazio autogestito, alimentato da spostamenti di senso e da silenzi rumorosi si muovono, inconsapevoli, gli scatti messi in scena da Cecilia Luci.
Zygmunt Bauman afferma che attualmente l’umanità vive in un mondo asimmetrico, nel quale ciò che accade a livello locale ha ripercussioni a livello globale. Siamo in balia della vulnerabilità nelle sue molteplici sfaccettature e nessuno, compreso l’operatore culturale che tenta una lettura comparata, è escluso. Bauman sostiene l’esistenza di un’identità liquida, in preda allo sconforto e all’incertezza, individuata come diretta conseguenza delle convenzioni estetiche, economiche, politiche di cui noi tutti siamo vittime.
Non c’è una reale via di scampo ma l’artista, ancora una volta, si incarica di raccontare ciò che drammaticamente ci accomuna (è questa l’unica e vera globalizzazione in corso) con la stessa attitudine di un antropologo del presente in grado di accumulare e apprendere più informazioni possibili, lottando contro la cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza.
Le testimonianze fotografiche di Cecilia Luci sono certo impegnate a scavare nella propria esistenza ma, lentamente, e anche grazie alla certificazione del mezzo, il privato si riaffaccia nel collettivo offrendogli la possibilità di intraprendere un percorso analogo.
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